“Traumi cranici, ferite lacerocontuse multiple, fratture craniche, emorragie intratoraciche, contusioni, fratture agli arti, alle mani, alle dita, alle costole, contusioni al viso” è un elenco (incompleto) delle violenze della polizia commesse nella caserma di Bolzaneto, rione di Genova, nel luglio 2001.
Il quadro terrificante, in cui agirono “servi dello Stato” autorizzati ad usare metodi definiti da “macelleria messicana” contro gli arrestati nella scuola Diaz, centro di informazione del movimento riunito contro il G8, andrebbe rafforzato almeno dall’assassinio di Carlo Giuliani, manifestante a cui un carabiniere sparò colpi mortali.
Il magistrato che redasse la sentenza della Corte di Appello al processo del 2010 contro i poliziotti, accusati in pratica di aver torturato gli arrestati della Diaz, ha ricostruito quanto successe nella città ligure nei tre giorni di passione dal 20 al 23 luglio 2001. E ha scritto un libro molto istruttivo e inquietante: Roberto Settembre, Gridavano e piangevano. La tortura in Italia: ciò che ci insegna Bolzaneto, Einaudi, 2014.
Il suo punto di vista è tipico di chi si fida delle carte processuali, in questo caso 60 faldoni di mille pagine ciascuno, che sono il risultato della lettura dei fatti di Genova da un’angolatura tutta legalitaria. Anche con queste inevitabili distorsioni professionali, la memoria di quegli eventi riesce a emergere dalle pagine scritte e impressiona il lettore per la gravità e l’esemplarità del comportamento degli agenti repressori. Sullo sfondo del discorso legale, con tutte le sue limitazioni intrinseche, il tema centrale è quello della tortura. La pratica di torturare gli arrestati non sembra, nel nostro paese, la regola dominante nel comportamento delle “forze dell’ordine”, ma i maltrattamenti,le minacce e le pressioni psicologiche e fisiche fanno molto spesso parte del meccanismo usato per impaurire e condizionare, soprattutto i soggetti più deboli dagli immigrati ai marginali. Al tempo stesso non vanno dimenticare le persone uccise durante interventi repressivi per detenere possibili “colpevoli” di reati. Si potrebbe fare un elenco lungo e impressionante. Qui ci limitiamo a ricordare il caso di alcuni anarchici: dal ferroviere milanese Pino Pinelli, gettato dal quarto piano della Questura il 15 dicembre 1969, al giovane studente Franco Serantini, massacrato di botte a Pisa il 7 maggio 1972 durante una manifestazione antifascista. Recentemente una sorte, per molti versi analoga ma con altre responsabilità, è toccata a Francesco Mastrogiovanni, morto nel luglio 2009 dopo essere stato legato in un letto di contenzione per tre giorni nel manicomio di Vallo della Lucania.
Non è una novità che la violenza sia parte integrante e caratterizzante degli apparati statali. Anzi, secondo vari giuristi e opinionisti, lo Stato sarebbe l’unico soggetto che possa usare tale modalità per risolvere problemi collettivi e ripristinare quello che ipocritamente è chiamato “ordine”. La legge lo autorizza senza porre troppe limitazioni all’uso dei mezzi coercitivi. Nel caso della brutale repressione a Genova nel 2001 il problema che si pone l’autore (togato) del libro è solo quello di un uso sproporzionato degli strumenti polizieschi.
Su questo terreno si muove infatti l’analisi del giudice Settembre che afferma, in un modo non consueto in quegli ambienti, che nel comportamento della polizia non si sia trattato di atti di esplosione di irrazionalità e di sfogo di bestialità, bensì di “fredda e calcolata condotta, cinicamente perpetrata con metodo sadico” (p. 251). La sua deduzione così sorprendente, in quanto proviene da un ambiente professionale assai vicino alla polizia, si basa su vari elementi oggettivi. In particolare le testimonianze, rese dalle vittime e perfino da alcuni imputati, rivelano che i pochi agenti che mantenevano ancora un barlume di umanità in quell’orgia di sangue e di ferite, di dolore e di umiliazione generalizzata, si trovarono a dover nascondere il proprio comportamento poco crudele di fronte a precisi ordini dei superiori di “dare una lezione” ai contestatori no global. Lo scopo dell’intera manovra appare infatti quello di dissuadere i colpiti da future partecipazione ad iniziative di protesta sociale e politica. “Se stavi a casa, non ti sarebbe successo questo”. Il che significa, a pensarci bene, che la finalità repressiva fosse esattamente quella di intaccare il diritto a manifestare il dissenso verso i potenti.
Sul piano psicologico, molti degli arrestati e torturati, hanno subito per anni i contraccolpi di quegli shock al punto di tremare ogni volta che si trovavano, ancora per diversi anni dopo quel luglio 2001, in presenza di uomini in divisa da poliziotti. Avevano interiorizzato, e con molti motivi, un senso di panico difficilmente superabile.
Le azioni repressive di Genova hanno smascherato l’essenza ultima dello Stato quale vero terrorista verso i suoi sudditi. In tal modo si è realizzata una situazione paradossale: le accuse degli anarchici verso la natura disumana del Potere hanno trovato più che una conferma da parte dei “funzionari dello Stato”. Insomma l’aggressività e la coscienza dell’impunità favorivano quanto di peggio ci fosse in quegli agenti, nei loro dirigenti istituzionali, nei politici che, in fin dei conti, li gestivano come strumenti a difesa del loro privilegio.
Non è un particolare secondario il fatto che, al di là di qualche condanna di esecutori di basso rango, i capi dell’operazione abbiano continuato la propria carriere in polizia e anzi, siano stati premiati con incarichi delicati e di prestigio. Quando i libertari denunciano il fatto che lo Stato, anche quello che si compiace a definirsi democratico, non reprime chi viola le sue stesse leggi scritte ma, in sostanza, lo protegge e lo valorizza, essi trovano un’ulteriore conferma. Così fa, in parte, questo volume che, tra molti altri, rivela il retroscena delle “prova tecniche di fascismo” come fu espresso in molti muri delle nostre città.
Il fascismo, ingenuo ma convinto, si ritrova in molti atteggiamenti dei poliziotti che, secondo più testimonianze convergenti, si divertivano a far gridare ai fermati “Viva Mussolini” e avevano trovato la rima tra il numero tre e il dittatore Pinochet. Nel complesso dei fatti accaduti sarebbero episodi insopportabili, ma marginali. Altro peso hanno avuto invece “i manganelli tonfa impugnati alla rovescia, mazze da baseball, altri corpi contundenti, calci con gli anfibi e pugni da parte dei 349 forsennati” (p. 250). E queste centinaia sono solo quelli identificati e accusati, si badi bene, non di aver inferto le torture bensì solo di non averle impedite.
Accanto a questa esplosione di esplicita brutalità istituzionale non potevano mancare altri due elementi accessori: la costruzione di prove inesistenti a carico dei fermati e la cancellazione di quelle contro gli agenti. Così è bene ricordare che furono inventate alcune molotov quale dimostrazione della natura violenta degli occupanti la Diaz, mentre vennero distrutti i computer e le macchine fotografiche e sequestrate le videocassette presenti nel Centro Stampa dell’edificio dirimpettaio della Diaz e da cui si assistette all’intervento.
En passant il libro cita la presenza a Genova di “settecento agenti americani” chiamati come specialisti in torture efferate, ma non dà alcun rilievo all’attività di mandante, e responsabile politico della mattanza, del vice di Silvio Berlusconi, l’allora fido Gianfranco Fini, leader degli eredi fascisti. La sua presenza non poteva essere di mera assistenza spirituale e psicologica ai poliziotti, come affermò senza ritegno. Nel luglio 2001, in Italia, si era a ridosso della vittoria elettorale delle destre e la volontà di impedire manifestazioni contrarie al nuovo governo guidava l’azione dei politici vincenti.
La finalità specifica del libro si può leggere sia all’inizio che alla fine e sarebbe quella di introdurre finalmente il reato di tortura nelle norme giuridiche italiane, accettando la richiesta che da anni proviene da varie Corti internazionali sui diritti umani. Il tira e molla su tale legge mostra invece quale sia, al di là di ogni visione puramente ideologica, il potere della polizia sull’Italia, sui suoi organi legislativi, sui partiti che pretendono di rappresentare l’orientamento della popolazione. (In realtà l’astensionismo quasi maggioritario rivela quanto l’affermazione di rappresentatività sia destituita di fondamento).
Nel libro si trova anche un’espressione che sintetizza gli effetti della “lezione” di Genova 2001. Un giovane spagnolo ferito dichiara, senza incertezze, che gli rimane nella coscienza “un ripudio per tutto ciò che concerne le forze dell’ordine”. Del disordine e del terrore si potrebbe precisare.
C.V.